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In questi tempi caratterizzati dall’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Coronavirus (COVID-19), risulta di estrema utilità esaminare gli effetti che il fenomeno pandemico ha determinato sul mondo del lavoro e gli interventi che l’emergenza ha conseguentemente imposto.

Oltre al blocco di tutte le attività commerciali ed industriali, fatta eccezione per quelle legate alla produzione dei beni di prima necessità, si sono resi necessari interventi mirati a contenere gli effetti dirompenti della pandemia, attraverso il distanziamento sociale, la compressione di diritti fondamentali della persona, l’imposizione di precauzioni igienico-sanitarie nonché l’adozione di misure economiche a sostegno di famiglie, lavoratori ed imprese.

In tema di lavoro si possono segnalare alcuni degli interventi più significativi.

Blocco dei licenziamenti

Spicca innanzitutto il blocco dei licenziamenti previsto dall’art. 46 del decreto Cura Italia n. 18/2020, recante misure urgenti per contrastare l’emergenza da Covid-19, il quale ha stabilito che “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604.”

In sostanza, dal 17 Marzo al 16 Maggio 2020, sono bloccate le procedure di riduzione collettiva del personale, nonché i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (che trova il suo fondamento in ragioni di ordine economico ed organizzativo che inducono il datore di lavoro recedere dal contratto di lavoro con uno o più dipendenti), a prescindere dal numero di dipendenti dell’azienda. Il datore di lavoro, quindi, non potrà recedere dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo per il termine indicato dal decreto. Inoltre, rimangono sospesi i procedimenti di licenziamento in essere alla data del 23 Febbraio 2020, sino alla scadenza del suddetto termine.

Dal blocco imposto rimangono esclusi i licenziamenti per giusta causa, ovvero quelli che non consentono la prosecuzione nemmeno temporanea e/o provvisoria del rapporto di lavoro, e i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo disciplinare.

Cassa Integrazione Guadagni in Deroga COVID-19

Sempre allo scopo di contenere e fronteggiare le conseguenze economiche ed occupazionali dell’emergenza coronavirus (COVID-19), con il decreto n. 18/2020 sono state messe in campo misure a sostegno di imprese e lavoratori attraverso la previsione di una serie di ammortizzatori sociali ad hoc. Tra questi rientra la Cassa integrazione ordinaria, in deroga (Cigd Covid-19), oltre all’assegno ordinario erogato dal Fondo di integrazione salariale (Fis) e i fondi di solidarietà di settore, tutti strumenti con causale COVID-19.

In particolare, la Cigd Covid-19 è stata estesa a tutti i dipendenti delle aziende di ogni settore produttivo del territorio nazionale, ovvero anche a quelle aziende che normalmente potrebbero contare solo sulla cassa integrazione straordinaria. L’integrazione al reddito può essere utilizzata per sospensioni o riduzioni dell’attività dal 23 Febbraio fino al 31 Agosto 2020, termine quest’ultimo che non vale per la Cigd su cui decidono le Regioni, e comunque per un periodo non superiore alle nove settimane.

Da segnalare che il decreto liquidità n. 23/2020 ha esteso gli ammortizzatori sociali messi in campo per arginare gli effetti economici ed occupazionali della pandemia anche ai lavoratori assunti tra il 24 Febbraio e il 17 Marzo 2020.

Tuttavia, ad oggi, quello che risulta ancora incerto, e che provoca le maggiori difficoltà per le imprese, sono le tempistiche per l’accesso e l’erogazione del sostegno economico tramite la Cigd Covid-19.

La complicazione della Cigd Covid-19 sta’ nel fatto che la sua applicazione è demandata alle Regioni e alle Province Autonome, per cui i tempi di utilizzo dell’ammortizzatore e le modalità di presentazione delle domande cambiano da territorio in territorio.

Inoltre, il pagamento ai lavoratori può essere fatto dall’Azienda o direttamente dall’Inps. Nel primo caso i dipendenti incassano subito i soldi e poi l’impresa li conguaglia con i contributi dovuti all’Inps, mentre nel secondo caso i tempi di pagamento si allungano.

Permessi e congedi parentali

Sempre in tema lavoro, la necessità del distanziamento sociale per arginare la propagazione del COVID-19 ha reso necessari interventi in materia di permessi e congedi familiari dei lavoratori dipendenti e non.

Nella specie, l’art. 23 del decreto Cura Italia n. 18/2020 ha previsto l’attribuzione ai lavoratori del diritto di usufruire di un periodo di congedo per l’assistenza dei figli minori durante il periodo di sospensione delle attività scolastiche. Tale beneficio, che si dovrebbe accompagnare, secondo quanto previsto, ad una indennità pari al 50% della retribuzione o del reddito o della retribuzione convenzionale giornaliera, riguarda i lavoratori dipendenti privati e pubblici, oltre che iscritti alla gestione separata e per gli autonomi, con figli di età non superiore ai 12 anni o con figli disabili, per i quali ultimi il limite di età non si applica nei casi accertata grave disabilità ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, iscritti a scuole di ogni ordine e grado o ospitati in centri diurni a carattere assistenziale, fatta salva l’estensione prevista al successivo articolo.

L’art. 24 del decreto Cura Italia, D.L. n. 18/2020 ha incrementato i giorni di permesso retribuiti per i lavoratori beneficiari dei permessi ex Legge n. 104/1992, ma solo per i cosiddetti Care-giver. L’art. 24 del decreto ha esteso la durata dei permessi retribuiti di ulteriori 12 giorni, per i mesi di Marzo e Aprile 2020, con contribuzione figurativa ex art. 33 della Legge n. 104/1992 per coloro che assistono un familiare portatore di handicap.

Una prima sintetica illustrazione sulla novità in esame è stata fornita dall’INPS con il Messaggio n. 1281 del 20 marzo 2020. Successivamente, con la Circolare n. 45 del 25 Marzo 2020, l’INPS ha recepito ed illustrato le istruzioni operative e procedurali in merito all’applicazione del suddetto beneficio.

Avv. Matteo Prosperi

 

L’Autorità ministeriale, per far fronte all’emergenza della diffusione del Covid-19, ha predisposto, nel corso di breve tempo, ben quattro moduli per l’autocertificazione necessaria per gli spostamenti personali.

Il primo modello di autocertificazione (di cui al DPCM del 8 marzo 2020) era costituito da un semplice modulo in cui ci veniva richiesto se si fosse a conoscenza delle misure di contenimento del contagio di cui al DPCM concernenti lo spostamento delle persone fisiche all’interno del territorio nazionale, nonché delle sanzioni previste in caso di inottemperanza, e l’indicazione dettagliata delle motivazioni inerenti allo spostamento.

Il secondo modello previsto dal DPCM del 17 marzo, richiedeva un’ulteriore indicazione, ovverosia di non essere sottoposto alla misura della quarantena e di non essere risultato positivo al virus, oltre che prevedeva la configurabilità del reato di cui all’art. 650 c.p. in caso di inottemperanza delle misure indicate nell’autocertificazione stessa.

Il terzo modello del 23 marzo richiedeva una giustificazione da parte dell’interessato sia il luogo di inizio e di arrivo dello spostamento, che l’indicazione di una delle voci rientranti nell’elenco delle situazioni di necessità ivi previste, differenziando la “assoluta urgenza” con la “situazione di necessità” rispettivamente per i trasferimenti in comune diverso, l’altra per spostamenti all’interno dello stesso comune.

L’ultimo (forse) modello di autocertificazione attualmente in vigore è quello del 26 marzo, di cui al Decreto Legge 19/2020 (decreto che avrà validità sino al 31 luglio salvo modifiche), con il quale sono state aumentate le sanzioni e sono state accorpate le regole dei vari DPCM finora emessi in materia di Covid-19.

Ripercorso brevemente l’iter concernete l’autocertificazione passiamo ad analizzare le nuove regole e sanzioni del DL 19/2020.

In primis, cambiano le sanzioni per gli spostamenti ingiustificati o in caso di violazione dell’obbligo di quarantena. È stata eliminata la sanzione prevista ex art. 650 c.p. (reclusione sino a 3 mesi e ammenda di € 206). Infatti la sanzione penale è stata sostituita con quella amministrativa che prevede per il mancato rispetto delle misure di contenimento, salvo che il fatto costituisca reato, il pagamento di un importo da € 400,00 a € 3000,00. Se poi la violazione delle predette misure avviene mediante l’utilizzo di un veicolo le sanzioni sono aumentate fino a un terzo.

E’ utile precisare che il DL 19/2020 ha stabilito che tutte le persone denunciate fino al 25 marzo per aver violato il divieto di spostamento dovranno pagare una multa di circa € 200,00 e la sanzione penale di cui all’art. 650 c.p. viene automaticamente estinta (ciò al fine di evitare un intasamento dei Tribunali con numerosi procedimenti penali che molto verosimilmente si concluderebbero con una richiesta di oblazione, ovverosia di estinzione del reato previo pagamento di una somma di denaro).

Rimane invece in vigore l’applicazione del reato previsto dall’art. 452 c.p. (“delitti colposi contro la salute pubblica, punito con la reclusione da uno a cinque anni”) per coloro che violano l’obbligo di quarantena uscendo di casa volontariamente, perché affetti da Covid-19, atteso che possono provocare un’epidemia.

Ciò premesso, è adesso necessario rispondere ad una domanda che molte persone si chiedono, ma cosa accade in caso di autocertificazione falsa? Se infatti gli unici spostamenti ex lege consentiti sono esclusivamente quelli giustificati da comprovati motivi di lavoro, gravi e improrogabili necessità e motivi di salute, cosa accade se la persona nel modulo di autocertificazione asserisce una motivazione falsa?

A ben vedere è lo stesso modulo di autocertificazione che richiama, indicando nell’intestazione gli art. 46 e 47 del DPR 445/2000, le sanzioni penali di cui all’art. 76 della norma citata, che prevede responsabilità penale per coloro che rilascino dichiarazioni mendaci, atteso che queste sono considerate “come fatte a pubblico ufficiale” (comma 3). Ne consegue che sarà applicata la norma applicabile alla fattispecie criminosa prevista dall’art. 483 c.p. , ovverosia il reato di “falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, punito con la reclusione sino a 2 anni di reclusione”.

Inoltre si legge nel testo del modulo della autocertificazione la previsione anche dell’art. 495 c.p. (“falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sull’identità o su qualità personali proprie o di altri”), ovverosia la reclusione da uno a sei anni.

In definitiva, chiunque decida scaltramente di rendere dichiarazioni mendaci, paventando qualsivoglia di motivazione non veritiera per il proprio spostamento, non potrà sfuggire, in caso di accertamento delle Forze dell’Ordine, da un procedimento penale a suo carico con sanzioni penali non certo di poco conto.

Ovviamente è doveroso precisare come l’accertamento della giustificazione dello spostamento spetti alle competenti Autorità, gravate dall’onere di dimostrare la falsità della dichiarazione rilasciata dalla persona.

Pertanto è necessario chiarire che non vi è alcun obbligo (come erroneamente asserito da vari mass media) per le persone di conservare lo scontrino o altro documento che provi l’effettiva esigenza dello spostamento così come indicata nell’autocertificazione. Sono le Forze dell’Ordine che dovranno provare la falsità delle dichiarazioni e non viceversa (ad. es. se una persona dichiara che sta andando al lavoro è utile avere ad un documento che dimostri l’attività lavorativa, ma sicuramente è l’agente accertatore a dovere controllare la veridicità dell’attività lavorativa, ad esempio contattando il datore di lavoro).

Ciò non toglie che sia comunque utile conservare il documento per un eventuale accertamento e per un miglior diritto di difesa, ma la legge non prevede alcun obbligo di conservazione, rappresentando questo mera facoltà del cittadino.

DECRETO LEGGE  25 MARZO 2020 N. 19

MODULO AUTOCERTIFICAZIONE

Avv. Giacomo Chiuchini

Co-Legal

 

 

E’ ormai noto a tutti che il Governo, con i provvedimenti di cui al d.l. 01.03.2020 e seguenti, ha incentivato il ricorso allo smart working per aziende e dipendenti, al fine di attuare efficacemente le misure restrittive legate all’emergenza sanitaria attualmente in essere.

La modalità di lavoro agile non è nuova al nostro ordinamento, in quanto tale definizione è stata per la prima volta introdotta dalla Legge n. 81 del 2017 contenente le “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, prevedendo così una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che non ha precisi vincoli di orario – fermo restando i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva – o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici.

La prestazione di lavoro agile è caratterizzata da flessibilità organizzativa, dalla volontarietà delle parti che (nella versione ordinaria) sottoscrivono un accordo individuale, nonché dall’utilizzo degli strumenti tecnologici  quali pc, laptop, tablet etc., i quali permettono al lavoratore di operare da remoto. L’esecuzione del rapporto di lavoro subordinato viene stabilita mediante l’accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli ed obiettivi e, tra gli altri requisiti, si prevede che normalmente sia il datore di lavoro a mettere a disposizione gli strumenti di lavoro e a dover fornire una informativa corretta e completa all’utilizzatore.

La novità in deroga che al momento attuale desta più interesse è che il Governo ha adottato una  versione “semplificata” dello smart working, estesa per l’intera durata dello stato di emergenza ad ogni tipo di lavoro subordinato su tutto il territorio nazionale, anche in assenza degli accordi individuali previsti dalla relativa normativa, al fine di evitare gli spostamenti e contenere i contagi.

Tuttavia, la sicurezza dei dati personali, sia in entrata che in uscita quotidiana, sia una volta conservati sul device utilizzato da parte del lavoratore per lo smart working, è di primaria importanza e garantirla è e resta anche al momento attuale un obbligo dell’azienda ai sensi dal Regolamento (UE) 2016/679 (“GDPR”) in qualità di titolare o responsabile del trattamento. È vero che dipendenti e collaboratori, in qualità di autorizzati al trattamento dovrebbero già avere precise istruzioni, impartite dal titolare, per la salvaguardia dei dati personali che trattano nello svolgimento della propria mansione, ma non sempre le direttive e le procedure di sicurezza sono adeguate allo smart working, soprattutto ove questo non sia mai stato adottato prima d’ora. L’attuazione dello smart working in maniera repentina e inaspettata per far fronte all’attuale emergenza, soprattutto in realtà piccole e poco strutturate, potrebbe comportare seri rischi per i dati personali. Pertanto, pur tenendo conto del contesto emergenziale e delle risorse a disposizione del datore di lavoro come previsto dall’art 32 del GDPR, l’azienda è chiamata ad adottare misure di sicurezza che siano adeguate per proteggere i dati personali del lavoratore e non solo (per fare un esempio banale, dati personali dei clienti che il lavoratore tratta da casa tramite pc). Ad esempio, è senz’altro da evitare che i dipendenti usino i loro dispositivi personali per accedere ai sistemi aziendali, ivi incluse le connessioni di rete, in quanto spesso tali devices non risultano adeguatamente protetti da programmi antivirus, così come le connessioni non sono gestite da password con idonei standards di sicurezza. Se possibile, sarebbe preferibile l’utilizzo di sistemi di connessione VPN e l’adozione di sistemi di autenticazione a due fattori (con l’uso di codici o token, in aggiunta alla normale password); ove tutto ciò non risulti possibile, appare prudente (anche se non sempre attuabile) impedire almeno temporaneamente trattamenti da remoto di dati ad elevato rischio  per le libertà e diritti fondamentali per l’individuo, per prevenire possibili violazioni della cyber security.

Ecco perché restano fermi anche in questo particolare momento gli obblighi informativi quali la consegna ai dipendenti di apposita informativa privacy  e sulla sicurezza del lavoro: a tale ultimo proposito, un utile strumento per una corretta informativa sulla salute e sicurezza nel lavoro agile è offerto gratuitamente collegandosi al sito di INAIL nella sezione dedicata all’Emergenza Coronavirus.

Di seguito, invece, un esempio di informativa sulla data protection da consegnare e far sottoscrivere a tutti i dipendenti da parte delle aziende interessate, che potranno essere modulati ed adeguati alle esigenze specifiche previo contatto con il nostro studio:modello regolamento privacy smart working

Altro aspetto che ingenera dubbi negli utenti è quello delle modalità di controllo a distanza da parte del datore di lavoro e alle connesse esigenze di tutela della privacy in capo ai dipendenti.In merito il Garante per il trattamento dei dati personali, nel provvedimento del n. 303 del 13 luglio 2016 – ha specificato che i sistemi software che consentono, con modalità non percepibili dall´utente (c.d. in background ) e in modo del tutto indipendente rispetto alla normale attività dell´utilizzatore (cioè senza alcun impatto o interferenza sul lavoro del dipendente), operazioni di “monitoraggio”, “filtraggio”, “controllo” e “tracciatura” costanti ed indiscriminati degli accessi a internet o al servizio di posta elettronica, non possono essere considerati “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”.

In tale ultima nozione, infatti si possono ricomprendere solo servizi, software o applicativi strettamente funzionali alla prestazione lavorativa, anche sotto il profilo della sicurezza per cui, a titolo esemplificativo, possono essere considerati “strumenti di lavoro” ex art. 4, comma 2, Legge n. 300/1970 il servizio di posta elettronica offerto ai dipendenti (mediante attribuzione di un account personale) e gli altri servizi della rete aziendale, fra cui anche il collegamento a siti internet. E’ stato altresì chiarito che costituiscono parte integrante di questi strumenti anche i sistemi e le misure che ne consentono “il fisiologico e sicuro funzionamento al fine di garantire un elevato livello di sicurezza della rete aziendale messa a disposizione del lavoratore” (ad esempio: sistemi di logging per il corretto esercizio del servizio di posta elettronica, con conservazione dei soli dati esteriori, contenuti nella cosiddetta “envelope” del messaggio, per una breve durata non superiore comunque ai 7 giorni; sistemi di filtraggio anti-virus che rilevano anomalie di sicurezza nelle postazioni di lavoro o sui server per l’erogazione dei servizi di rete; sistemi di inibizione automatica della consultazione di contenuti in rete inconferenti rispetto alle competenze istituzionali, senza registrazione dei tentativi di accesso).

Ciò che travalica i limiti qui indicati, deve dunque ritenersi strumento di controllo a distanza e pertanto il datore di lavoro potrà utilizzarlo solo se avrà preventivamente informato il lavoratore agile della possibilità di eseguire controlli sulla prestazione lavorativa di quest’ultimo. Si noti –per inciso- che la violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori è un reato di pericolo per cui non è necessario che di fatto il datore controlli il lavoratore, ma basta che ne abbia la possibilità: con la conseguenza che la norma riguarda tutti indistintamente, anche quei datori che non abbiano interesse a controllare effettivamente i  dipendenti o collaboratori.

Concludendo, il datore di lavoro dovrà innanzitutto disciplinare nell’accordo di lavoro agile l’esercizio del potere di controllo sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali ed, anche in caso di smart working semplificato, al quale si sta ricorrendo nell’attuale momento storico, si consiglia di provvedere quanto prima possibile, unitamente alle dovute informative sopra elencate.

Avv. Francesca Boschi

 

 

Come noto  l’art 2467 c.c. prevede al suo primo comma che “il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito”, mentre al suo secondo comma statuisce che “ai fini del precedente comma s’intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”.

È altrettanto noto che, a differenza dei conferimenti che attribuiscono al socio della s.r.l. un complesso di diritti sociali (diritti amministrativi ed anche diritti patrimoniali), ma che comportano la partecipazione al rischio di impresa sociale (capitale di rischio), i finanziamenti evitano di esporre il patrimonio del socio finanziatore ai rischi di impresa, proprio perché gli stessi costituiscono un debito della s.r.l. e conseguentemente comportano l’obbligo di restituzione in favore del medesimo socio creditore/finanziatore.

Il legislatore con l’art. 2467 c.c. è quindi intervenuto per regolamentare la prassi diffusa, nel caso di crisi di impresa, di ricorrere al finanziamento dei soci anziché di far effettuare un conferimento di capitale da parte degli stessi.

Si è dunque cercato di contrastare il fenomeno della sottocapitalizzazione della s.r.l., affinché il socio, qualunque sia la sua partecipazione, in situazioni di crisi o di insolvenza della società, potenzialmente idonee a creare un concorso fra tutti i creditori della società, non diventi anch’esso creditore della società, ledendo quindi il principio della par condicio creditorum; la società in tali condizioni dovrà procedere o con la sua ricapitalizzazione, ovvero con la cessazione dell’attività.

Riassumendo i presupposti oggettivi della “postergazione” sono l’eccessivo “squilibrio” fra indebitamento e patrimonio netto della società, ed il deficit finanziario della società che avrebbe ragionevolmente dovuto condurre ad un conferimento; il presupposto soggettivo, invece, è la qualifica di socio, indipendentemente dalla sua partecipazione, atteso il suo potere di informazione sugli affari sociali, ex art. 2746 c.c., del quale, solitamente, non dispone il comune creditore.

In caso di violazione di tale divieto, si prevede la responsabilità dell’organo amministrativo se provvede al rimborso in favore del socio senza eccepire la postergazione e, per parte della giurisprudenza, anche  del socio che ha ottenuto il rimborso, il quale è chiamato a rispondere in solido con gli amministratori ex art. 2476 comma VII c.c., per aver deciso ed autorizzato la restituzione.

Inoltre se il rimborso del finanziamento è avvenuto nell’anno precedente alla dichiarazione di  fallimento vi è l’obbligo di restituzione dello stesso al Curatore fallimentare.

Prendendo spunto da questo ultimo passaggio, si può evincere il primo riflesso del Decreto Liquidità sulla portata dell’art. 2467 c.c., atteso che l’art. 383 comma 1 del dlgs 12.01.2019 n. 14 – decreto che ha introdotto il Codice della Crisi di Impresa e la cui entrata in vigore era prossima (14 agosto 2020) – dispone la soppressione delle ultime parole del primo comma dell’articolo in esame e più specificatamente delle seguenti “ [… ] e se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito”.

Tuttavia, l’art. 5 del d.lgs 8.04.2020 n. 23, Decreto Liquidità, ha rinviato l’entrata in vigore del Codice della Crisi di Impresa al 1 settembre 2021, e conseguentemente rimarrà in vigore sino a tale data l’obbligo, nell’anno anteriore la dichiarazione di fallimento della società, di restituzione del finanziamento del socio al Curatore della fallita, e la Procedura fallimentare, in caso di inerzia del socio, avrà un rimedio ben più forte dell’azione revocatoria, in quanto tale obbligo opera automaticamente, non richiedendo l’accertamento della scientia decotionis del debitore e, soprattutto, non vale da parte del socio provare l’ignoranza dello stato di insolvenza o dell’inesistenza dello stesso al momento del rimborso.

Prima di affrontare il secondo ed importante intervento del Decreto Liquidità sull’art. 2467 c.c., occorre preliminarmente soffermarsi sull’orientamento adottato recentemente dalla giurisprudenza di legittimità in ambito di postergazione del finanziamento dei soci, la quale si è spinta a ricondurre nell’alveo dei finanziamenti in qualsiasi forma effettuati e quindi dei cd. “finanziamenti indiretti”, tutti quegli atti negoziali che “comportano un’attribuzione patrimoniale accompagnata dall’obbligo della sua futura restituzione”, dunque svincolandosi dalla sola categoria dei negozi di credito.

In particolare, Cassazione Civile 31 gennaio 2019 n. 3017 ha ritenuto che la volontà del socio di finanziare la società è desumibile dalla prolungata astensione dall’intraprendere iniziative volte a recuperare il proprio credito maturato nei confronti della medesima, con le ovvie conseguenze in punto di postergazione del predetto credito del socio.

Pertanto, se con tale attuale passaggio giurisprudenziale la dottrina ha rilevato “un transito verso una visuale non incentrata sul negozio, quanto piuttosto sulla valutazione del comportamento del socio”, ecco dunque che le modifiche apportante all’art. 2467 c.c. da parte del Decreto Liquidità vanno “temporaneamente” ad ibernare qualsiasi profilo sia oggettivo che soggettivo della postergazione, mettendo momentaneamente in attesa di applicazione anche l’ultimo orientamento giurisprudenziale sopra ricordato.

Infatti, l’art. 8 del Decreto Liquidità (Disposizioni temporanee in materia di finanziamenti alle società) dispone che “ai finanziamenti effettuati a favore delle società dalla data di entrata in vigore del presente decreto e sino alla data del 31 dicembre 2020 non si applicano gli articoli 2467 e 2497 quinquies del codice civile”, motivo per il quale i soci che, nel predetto arco temporale, avranno finanziato la società in una situazione di eccessivo squilibrio fra indebitamento e patrimonio netto, o comunque di deficit finanziario, godranno del “tana libera tutti” effettuato dal recente intervento normativo.

Avv. Lorenzo Valdarnini

Co-Legal

 

Se è vero che si è assistito nei giorni precedenti ad un proliferare di norme volte, da un lato, a prevedere la sospensione di tutti i termini processuali ed amministrativi (salve le espresse deroghe) e, dall’altro, a far slittare in avanti tutti gli adempimenti fiscali e contributivi, l’articolo 67, comma 1, del Dl 18/2020 prevede, tra le altre, in punto di attività procedurali dell’Amministrazione Finanziaria, che dall’8 marzo al 31 maggio 2020 «sono sospese le attività di liquidazione, di controllo, di accertamento, di riscossione e di contenzioso». Evidentemente ciò non significa completa inattività degli Uffici i quali, a ben vedere, potranno continuare tutte le attività istruttorie interne volte alla eventuale successiva emanazione di provvedimenti: naturalmente solo quelle che consentano di osservare le prescrizioni a tutela della salute dei dipendenti dell’Agenzia stessa e del pubblico.

A titolo esemplificativo, le attività legate alle indagini finanziarie per le quali la sospensione non pregiudica la prosecuzione dell’attività relativa alla emanazione delle autorizzazioni alla richiesta di informazioni agli intermediari finanziari. O ancora, i cd. controlli a tavolino, ovvero quelle attività di verifica che non comportino uno spostamento fisico dei funzionari presso i locali di residenza, domicilio o attività del contribuente. La nozione «controlli» da intendersi sospesi deve dunque essere interpretata in senso restrittivo, per tali intendendosi solo quelle attività di «accesso, ispezione e verifica» presso i locali del contribuente condotte con modalità che non garantiscano la salvaguardia della salute del funzionario e del destinatario.

Per il resto, l’Agenzia delle Entrate nella circolare 8/E/2020 ribadisce quanto già affermato in tema di attività degli Uffici nella precedente circolare 6/E sia in ordine al procedimento di accertamento per adesione, ovvero che “per l’istanza di accertamento con adesione presentata a seguito della notifica di un avviso di accertamento, non si applica la sospensione prevista dall’articolo 67 del Decreto, bensì quella prevista dall’articolo 83 del Decreto con riguardo al termine per l’impugnazione. In tal caso «si applicano cumulativamente: sia sospensione del termine di impugnazione “per un periodo di novanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza del contribuente”, prevista ordinariamente dal comma 3 dell’articolo 6 del d.lgs. n. 218 del 1997, sia la sospensione prevista dall’articolo83 del decreto»; sia per ciò che concerne le attività relative ai rimborsi, espressamente statuendo che “Coerentemente, anche in questo periodo emergenziale gli uffici continueranno a svolgere, nell’interesse dei contribuenti, l’attività istruttoria dei procedimenti relativi ai rimborsi, compresa la richiesta della documentazione utile ad eseguire l’istruttoria, con modalità volte a limitare spostamenti fisici da parte dei contribuenti e loro rappresentanti, nonché del personale dipendenti”.

Orbene, atteso che vi sono -almeno in teoria- attività che non risultano sospese, quid iuris nel caso in cui l’attività di controllo giunga a conclusione e venga notificato un atto di accertamento o liquidazione al contribuente? Orbene, è prevedibile, oltre che auspicabile, che gli Uffici utilizzeranno principalmente gli strumenti telematici a disposizione e già in uso nel sistema e, ove ciò risulti possibile, notificheranno l’atto a mezzo pec. Tuttavia, è noto che, ove il destinatario sia una persona fisica o comunque un soggetto non munito di un indirizzo di posta elettronica certificata, tale modalità non sia praticabile. Ebbene, a tal proposito desta qualche preoccupazione la previsione dell’articolo 108 del d.l. 18/20 in materia di «misure urgenti per lo svolgimento del servizio postale». Premesso che lo scopo della norma è evidentemente quello di necessaria salvaguardia della salute degli addetti del servizio postale e del cittadino, è stata prevista fino al 30 giugno 2020 la non necessità della firma della persona abilitata al ritiro sulla copia della raccomandata riservata al destinatario, essendo sufficiente che l’operatore postale attesti di essersi accertato della presenza dello stesso.

Ecco dunque che la criticità della previsione è immediatamente percepibile,  nonostante gli adempimenti che caratterizzano la nuova procedura comportino un accurato accertamento da parte dell’operatore postale della presenza del destinatario del plico ovvero di altri soggetti abilitati alla sua ricezione; l’immissione del plico nella cassetta postale o in altro luogo indicato dal consegnatario; la firma dell’operatore postale in luogo di quella del consegnatario; l’attestazione sui documenti di consegna da parte dell’operatore delle “modalità di recapito”.  Pare altresì che  la procedura di consegna (alias notifica) debba pur sempre svolgersi con la partecipazione attiva del consegnatario, giacché il luogo del deposito del plico deve essere specificamente indicato dal consegnatario dell’atto, ma è indiscutibile che l’intero procedimento resti affidato unicamente alla figura e al ruolo centrale dell’operatore, il cui oggetto (le “modalità di recapito”) deve essere necessariamente interpretato in senso ampio, ovvero non limitato al semplice richiamo all’articolo 108 (come pur si ha notizia che già accade) ma descrittivo in maniera sufficientemente dettagliata e precisa di tutte le fasi della notifica, ivi comprese le modalità di identificazione dell’interlocutore dell’agente postale (magari mediante l’indicazione degli estremi del documento di identità). Ma si supponga che il consegnatario non coincida con il destinatario dell’atto, come ben può avvenire o l’agente postale compia una qualunque omissione descrittiva delle semplificate (in realtà per lui più complesse) modalità di consegna: la norma nulla dice in proposito e pertanto, in generale, la previsione normativa non appare idonea a garantire la conoscenza effettiva dell’atto notificato. E ciò potrà tradursi inevitabilmente in contenziosi dall’esito incerto in ordine a reali (o pretestuosi) difetti di notifica, per i rischi di mancata conoscenza effettiva o legale dell’atto da parte del destinatario,  che forse con una sospensione generalizzata delle attività (anche di notifica) degli Uffici dell’Amministrazione finanziaria si sarebbero potuti evitare, atteso che le modalità semplificate attualmente in vigore appaiono tali da potenzialmente pregiudicare la posizione sia del notificatario  che del notificante.

Circolare Agenzia delle Entrate 8/E del 03.04.2020

Avv. Francesca Boschi

 

L’accompagnatrice di professione che abbia ricevuto un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate fondato sul cd. redditometro, nel momento in cui si rivolge ad un difensore di sua fiducia per l’impugnazione di tale avviso, riveste la qualifica di professionista, oppure di consumatore ai sensi del Decreto Legislativo n. 206 del 2005?

Il Tribunale di Firenze con ordinanza ex art 702 bis c.p.c. del 26 marzo 2019, pronunciandosi preliminarmente sulla competenza territoriale derogabile, ha chiarito che l’attività di escort, nel caso sottoposto al suo esame, non può essere qualificata in termini di professionalità e continuatività, ed ha conseguentemente applicato il foro esclusivo del consumatore, confermando la propria competenza a decidere la controversia.
In particolare, nella fattispecie sottoposta all’esame del Giudice fiorentino, è emerso che “né gli avvisi dell’amministrazione finanziaria ed il contenzioso che né è scaturito rimandano ad un accertamento sulla natura professionale dell’attività svolta dalla ricorrente”.
Secondo il Giudice di prime cure, ciò che conta per qualificare la ricorrente come vera e propria Professionista è l’assolvimento positivo dell’onere probatorio, gravante sul convenuto, che la medesima “percepisse per le prestazioni fornite dei veri e propri corrispettivi, piuttosto che regalie o liberalità, oppure se l’attività fosse saltuaria o continuativamente svolta”; onere che nel caso di specie non è stato rispettato dalla difesa del Professionista convenuto.
Ad ogni modo, la pronuncia in esame offre uno spunto interessante, al di là del caso di specie, per tutti quei professionisti che si trovassero ad affrontare una controversia con il proprio difensore incaricato dell’assistenza giudiziale tributaria a seguito, o comunque in occasione, della notifica di un avviso di accertamento basato sul redditometro. Il principio affermato dal Tribunale di Firenze sulla competenza territoriale del foro del consumatore appare infatti fondato sul fatto che l’accertamento del maggior reddito, nei casi di cui all’art. 38 DPR 600/73, non è strettamente legato alla fonte di produzione del reddito stesso (cd. accertamento sintetico) e pertanto la qualifica rivestita dal professionista nel momento in cui conclude il contratto d’opera con il proprio difensore è quella propria del consumatore, con conseguente applicabilità della relativa disciplina codicistica.

Pubblicato da
Lorenzo Valdarnini
Avvocato presso CO-Legal